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venerdì 13 marzo 2015

Carissima Laura, ti aspetta una festa… Lettera alla giornalista che si è finta penitente

di antonelloiapicca

Carissima Laura, io faccio festa!
rembrandt_return_of_the_prodigal_sonSi, facciamo finta che non facevi finta, e che davvero volevi confessarti. In questo caso io prete sono la persona più felice di questa terra. Per la stragrande maggioranza dei preti, infatti, non c’è nulla di più grande che poter accogliere una persona in confessionale e prestare a Cristo i propri orecchi per ascoltare i peccati e sguardo, voce e mani per trasmettere il suo perdono.
Per questo, Laura carissima, nello stesso momento in cui ti sei accostata al confessionale, ho cominciato a preparare una festa bellissima, nella certezza che, stando al di là della grata, eri già “rientrata in te stessa” come racconta Gesù nella parabola del figliol prodigo. E tanto basta perché in Cielo si faccia festa.
La Chiesa, infatti, esiste ed è sulla terra per preparare la festa eterna per tutti noi peccatori. La confessione è la porta alla gioia vera, che nessun’altra esperienza può dare. Neanche il matrimonio con l’uomo di cui sei innamorata, neanche dare alla luce un figlio. Perché nulla è più grande del perdono dei peccati, grembo benedetto dal quale le persone possono autenticamente rinascere.
Nella parabola, infatti, il Padre, immagine di Dio, ha una gioia straripante al punto che “bisognava far festa” perché, e lo dice lui stesso, “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Ecco, il punto fondamentale è racchiuso in queste parole. La Chiesa conosce il peccato che la “modernità” ha deciso di cancellare. E chi pecca muore dentro, e non è più capace di amare e donare fecondamente se stesso, che è il senso primo e ultimo di ogni vita.
Il figlio più giovane della parabola, ingannato come Adamo ed Eva dalla menzogna del serpente immagine del
demonio, ha finito con il credere che per essere felice e vivere in pienezza doveva tagliare con suo padre allontanandosi dalla sua casa. Ha pensato che Dio, se davvero esisteva, era un vecchio geloso della sua creatura che limitava con altrettanto obsoleti tabù e divieti. Insomma, per essere felice avrebbe dovuto autodeterminarsi, scegliere lui cosa fosse bene e cosa fosse male, seguendo ora la propria pancia, ora il sottopancia, ora la propria ragione.
Non è difficile intercettare in questa attitudine del cuore il fondamento ideologico delle esperienze che hai usato per carpire chissà quale stupefacente realtà. Per la Chiesa sono sofferenze generate dal cuore ammalato del figlio minore, tradotto in ideologia e culturame. La Chiesa sa che poi, per far tacere la propria coscienza, l’uomo è capace di acrobazie semantiche e dialettiche. Acrobazie appunto, perché hai voglia a dire che il bianco è nero e il nero è bianco, presto o tardi da qualche parte spunterà fuori il colore originale.
Nel figlio minore ci siamo tutti noi. Lo siamo in casa e al lavoro, a scuola e con gli amici. E non si tratta solo di sesso, che è stupendo; gli organi genitali zeppi di terminali nervosi sono una meraviglia creata da Dio perché quando ti unisci al coniuge secondo la sua volontà che la Chiesa ha sempre aiutato a comprendere, il piacere tocca il picco massimo, come un anticipo di Cielo. Quando sei una sola carne con tuo marito e tua moglie, e tremi nel sapere che da quell’amore potrebbe apparire una nuova vita, la carne, cioè ogni cellula che ti fa quel corpo lì, comincia a friggere insieme al tuo spirito, a quello che ti fa quella persona lì. E allora è una sinfonia che esprime una gioia infinita.
Vedi? Si torna sempre all’amore. Per questo la Chiesa non apre i confessionali come fossero chioschi dove comprarsi l’assoluzione un tanto al chilo. Un prete che attende un “penitente” è il volto del Padre che va incontro al suo figlio perduto. E che cosa c’è di più grande che strappare un uomo alla tomba dell’egoismo per riconsegnarlo alla propria dignità? Un prete in confessionale raccoglie “in persona Christi” il sudiciume che ha deturpato la creatura, e la riveste dello splendore originario.
Il confessionale, infatti, è la “camera operatoria” dell’ “ospedale da campo” di cui parla Papa Francesco. E se il morbo maligno che infetta ogni uomo è lo stesso, in ciascuno esso appare in modo diverso. Per questo, la creatività divina ispira i suoi ministri ad accogliere e accompagnare ciascuno in modi e tempi adeguati. Nei confessionali c’è solo la misericordia infinita di Dio declinata tante volte quanti sono gli uomini sulla terra. E fondamenti solidi, dogmi e insegnamenti incastonati in una tradizione bimillenaria scaturita dalla fonte del Vangelo e irrorata dallo Spirito Santo che sempre ha colmato la Chiesa. Il fondamento di ogni morale è che “l’agire segue l’essere”. Per questo la Chiesa punta sempre all’essere nella certezza che una volta rinnovato questo anche l’agire sarà trasformato.
In confessionale, un prete ha sempre davanti una persona, e non un’etichetta d’uomo. Un peccatore che sta soffrendo e che ha bisogno di toccare Cristo; ma a modo suo, perché a modo suo ha peccato. Ognuno ha una sua storia, che Dio rispetta perché ha a cuore la libertà di ciascuno, e non attende che l’uomo si pieghi a una Legge che non è riuscito a compiere, ma si umilia Lui stesso per raggiungerlo nel fango in cui è precipitato.
E questa è la mia esperienza. Ho confessato giovani prede della droga in una comunità terapeutica. Cosa dicevo? Ciò che in quel momento lo Spirito Santo mi ispirava e se da un lato ero prostrato da tanto dolore, sentivo realmente passare attraverso di me una misericordia che solo dal Cielo poteva scendere così copiosa e amorevole.
Che cosa vuoi che un prete possa dire a chi è profondamente ferito? Di mettersi a correre i cento metri? Certo che no! Un prete dice sempre parole non sue, quelle ripetute da Gesù ai peccatori: “Coraggio, nessun peccato è più forte del mio amore! Alzati, e non peccare più!”, che significa: da ora cammina con me per imparare ad amare come sei stato amato.
Ho visto queste parole diventare sacramento – realizzando cioè quello che annunciano – per tantissime persone, in Giappone come in Italia. Ovunque ho toccato il potere della confessione: coppie sull’orlo del divorzio ricostruite nel perdono sacramentale. Parenti che non si parlavano da decenni riconciliarsi grazie alla fornace ardente della misericordia di Dio. Coniugi schiavi della paura e dell’egoismo schiudersi di nuovo alla vita. Quanti figli ho visto nascere dal confessionale, generati nel perdono! Quanti anziani hanno perdonato i propri figli dopo aver confessato i giudizi nei loro confronti. E che gioia in chi, confessandosi, ha ritrovato la propria identità! Quanta pace ho respirato nelle confessioni dei malati, stanchi e sfiduciati di fronte al male che li aggrediva. Proprio oggi l’ho vista impressa nello sguardo di una sorella giapponese che sta varcando il traguardo del Cielo dopo aver lasciato a Dio ogni zavorra.
Certo, la confessione non è magia. Al contrario, è solo l’inizio di un cammino serio di conversione. La Grazia, infatti, come scriveva Bonhoeffer, è sempre a caro prezzo, il sangue di Cristo che muove chi è stato “graziato” a una “penitenza” attraverso la quale si compie in lui la vita nuova donata da Cristo. Per questo non basta origliare le parole e i consigli di un confessore per capire come la Chiesa amministri questo sacramento. E’ questione di una vita, di un combattimento affrontato in una comunità concreta, sino all’ultimo respiro.
Carissima Laura, vuoi fare un’inchiesta sincera? Comincia da te. Accogli, come in parte hai già fatto nella tua lettera, le parole del Cardinale Caffarra. Dai, non può averti “ripagato” il fatto che “molti dei quali hai riportato situazioni concrete” ti “hanno ringraziato”. Di che? Che hai messo in rilievo quello che già domina ovunque sui media? La Chiesa, molto prima di questi, dell’Onu e dell’Unione Europea, diciamo da duemila anni, ha accolto ogni situazione di dolore nella misericordia di Dio. Solo essa unita alla verità può consolarci…
Sai? Cristo mi ha creduto sempre, e per questo ti credo. So che ti “sentivi male” e così ti aspetto al confessionale, perché questa sedicente inchiesta è proprio da confessare. E chissà che tu non abbia qualche altro peso che ti impedisce d’essere felice. Coraggio, fai come me, penitente prima che confessore; confessati e mettiti in cammino con la Chiesa che, stigmatizzando il tuo gesto, non ha giudicato il tuo cuore. Vedrai meraviglie, queste sì da pubblicare “senza filtri”, per dare gloria all’amore di Dio.

Articolo pubblicato su “La Croce” del 13 marzo 2015

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