Quando nel 2009 la polizia è andata a prenderla, Asia Bibi, giovane cristiana cattolica madre di cinque figli, subito non ha capito. Aveva avuto una discussione con delle compagne di lavoro musulmane, niente di serio, così credeva. Invece loro l’avevano denunciata, accusandola di aver detto parole offensive contro Maometto: un’accusa gravissima in Pakistan, dove Asia vive e dove la legge punisce la blasfemia – offendere la fede con parole e azioni – anche con la pena di morte.
Nel 2010 Asia è stata condannata a morte mediante impiccagione. Nel 2014 la sentenza è stata confermata in secondo grado. Si attende ora l’esito del ricorso presso la Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio. Dal 2009 Asia è in prigione. Il giudice Naveed Iqbal, che per primo l’ha condannata, un giorno le ha fatto visita per offrirle la revoca della sentenza, a condizione che si convertisse all’islam. «Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta – racconta Asia – ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto – credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui».
In Pakistan il 97% della popolazione è musulmana. Piccola minoranza discriminata, mal vista e isolata, i cristiani vivono nell’angoscia di una accusa di blasfemia, facile pretesto spesso usato per vendetta, dispetto, ritorsione e come arma in conflitti di interesse. Per aver chiesto l’abrogazione della legge sulla blasfemia o almeno una riduzione delle pene previste, nel 2011 il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro delle minoranze, il leader cattolico Shahbaz Bhatti, sono stati assassinati a pochi mesi uno dall’altro.
Nel 2010 Asia è stata condannata a morte mediante impiccagione. Nel 2014 la sentenza è stata confermata in secondo grado. Si attende ora l’esito del ricorso presso la Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio. Dal 2009 Asia è in prigione. Il giudice Naveed Iqbal, che per primo l’ha condannata, un giorno le ha fatto visita per offrirle la revoca della sentenza, a condizione che si convertisse all’islam. «Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta – racconta Asia – ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto – credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui».
In Pakistan il 97% della popolazione è musulmana. Piccola minoranza discriminata, mal vista e isolata, i cristiani vivono nell’angoscia di una accusa di blasfemia, facile pretesto spesso usato per vendetta, dispetto, ritorsione e come arma in conflitti di interesse. Per aver chiesto l’abrogazione della legge sulla blasfemia o almeno una riduzione delle pene previste, nel 2011 il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro delle minoranze, il leader cattolico Shahbaz Bhatti, sono stati assassinati a pochi mesi uno dall’altro.
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